C’è un confine sottile fra l’indipendenza e la solitudine.
La Germania mi sprona a questo, superare i miei limiti, ancora una volta. Sul posto di lavoro ti spinge ad avere delle idee, elaborarle, presentarle, legittimarle, portarle avanti fino in fondo, crederci. Anche se alla fine tutto dovesse risultare inutile, avrai imparato qualcosa. Eppure qualcuno dovrebbe seguirti, se t’hanno chiamato apposta da un Paese molto lontano – e manco sei il Papa – per vantarsi della tua formazione, per sfidare le barriere linguistiche e portarti al santo Graal del giornalismo, non ti possono abbandonare a metà strada.
Il mio ufficio dalle cui finestre entrano miracolosi raggi di sole da quattro giorni consecutivi – regalandomi desideri irrealizzabili di me sdraiata al Planten um Blomen – è meta di pellegrinaggi sporadici che durano attimi: domande di circostanza: “Is everything allright?” di cui non si ascoltano le risposte. Che poi, cosa dovrei dire? “No, vorrei buttarmi nell’Elba perché nessuno mi caga?”, mi sembra un po’ infantile.
Continuo a sentirmi una perfetta idiota. Mi sento come…la Sirenetta di Andersen, quando Ursula le prende la voce. Ogni cosa che dico non ha il minimo senso, allora ho cominciato a spalancare la bocca cercando di iniziare frasi, ma senza emettere suoni. Mi è stata sottratta la parola, quello con cui gioco, lavoro, quello per cui vivo. La scrivo tutti i giorni sotto forma di indirizzi, numeri telefonici, e-mail, nomi di posti che erano miei, un anno fa. Sono ancora preziosa, in fondo, e Oslo dovrebbe darmi cittadinanza onoraria.
Ma i miei giorni passano veloci e cominciano ad assomigliarsi. Sento ancora il miracolo che mi ha portata fin qua, ma dovunque mi porti sulle reti di questo mondo enorme che vorrei abbracciare tutto, c’è un vuoto che non si colma. Le membra cominciano a cedere sotto il peso delle sfide quotidiane: anche iscriversi in palestra, quello che doveva essere uno sfogo, lo è diventato da quando l’istruttrice che cerca di seguirmi non parla una parola di inglese, neppure rechts oder links (destra o sinistra). I suoni bastardi di questa lingua impronunciabile mi si stanno conficcando in testa come chiodi di crocifissi, e fanno male. Il mio atteggiamento non mi aiuta: mi rifiuto. In realtà ci credo ogni giorno.
Ogni mattina mi alzo e penso che andrà meglio. Se se ne sono andate le nuvole posso farcela anch’io. Ma poi ogni tentativo crolla, ogni promessa non viene mantenuta, ogni impegno che tu non hai preso, viene scelto dagli altri che occupano il loro tempo e non hanno un attimo da dedicarti. Tu diventi un appuntamento come gli altri, una pratica da sbrigare, non emozioni da condividere.
Tu, che ancora ti allunghi fino alla porta di quell’altro ufficio e sorridi, chiedi come si sta. Speri ogni singolo istante che si ripeta la spontanea magia di quella prima settimana che ti ha portato perfino a credere in una nuova storia.
Invece, nulla si ripete. Nessuna delle tue speranze diventa conquista quando torni a casa di nuovo e ti pare sia passato solo un attimo da quello prima. Una lacrima di riga un po’ il viso, perché per giunta ammiri gli occhi innamorati di chi pensavi lo fosse di te, ma non t’ha mai guardata così, tirata in pista.
Anche chi pensavi ti amasse, non t’ha mai fatta ballare.
E invece solo questo vorrei fare ora: scatenarmi in una discoteca della Reeperbahn. Ma come per le passeggiate al porto, non ho nessuno che mi ci porti, né per mano, né di forza.