14 agosto 2013 – Lektion Einz

Lektion Einz.

Hören und sprechen.

Lesson number one.

Listen and repeat.

Ich heiße Eleonora. Und wie heißen Sie?

Mi chiamo Eleonora. E tu come ti chiami?

Ich heiße…

…altri 20 nomi. Di mille colori, mille pronunce. Ricci, lisci, maschi, femmine…italiani…perfino di Taranto!

Non andrei oltre.

E’ un deja vu, una raccolta di flashback, e si insinua il norvegese.

Jeg diventa Ich, ma sono sempre io, c’è di nuovo il mio nome su un tagliando di carta artigianale commissionato dal maestro. Serve a ricordarglielo, e a farlo imparare agli altri. Si ride tantissimo, per imbarazzo, e si parla poco, perfino in inglese, perchè cominci a percepirlo come “vietato” 🙂

Si è tornati fra i banchi di scuola, si è di nuovo allievi.

Si gioca come bambini, per imparare.

Ed è proprio vero che non si smette mai. Quante prime lezioni ancora mi aspettano?

Maestri di vita non ci si diventa manco da morti, quella è una laurea che non si prende.

Così come ci sono lezioni che non si imparano. La prima, la seconda, la terza, la quarta…si persevera in alcuni specifici errori su cui si continua a cadere come se non ci si facesse male. Come se non fosse umiliante, quando l’insegnante ti sgrida, ti mette un brutto voto.

Lo diventa il doppio, quando diventi l’insegnante di te stesso, e ti bacchetti da solo.

Riuscire, riuscire, riuscire.

Riuscire, non eccellere.

Riuscire per dimostrare.

Ma cosa? A chi?

Sempre a se stessi, a chi se no.

Cosa…ancora non lo so.

Immagine

6 Giugno 2013 – Alone

C’è un confine sottile fra l’indipendenza e la solitudine.

La Germania mi sprona a questo, superare i miei limiti, ancora una volta. Sul posto di lavoro ti spinge ad avere delle idee, elaborarle, presentarle, legittimarle, portarle avanti fino in fondo, crederci. Anche se alla fine tutto dovesse risultare inutile, avrai imparato qualcosa. Eppure qualcuno dovrebbe seguirti, se t’hanno chiamato apposta da un Paese molto lontano – e manco sei il Papa – per vantarsi della tua formazione, per sfidare le barriere linguistiche e portarti al santo Graal del giornalismo, non ti possono abbandonare a metà strada.

Il mio ufficio dalle cui finestre entrano miracolosi raggi di sole da quattro giorni consecutivi – regalandomi desideri irrealizzabili di me sdraiata al Planten um Blomen – è meta di pellegrinaggi sporadici che durano attimi: domande di circostanza: “Is everything allright?” di cui non si ascoltano le risposte. Che poi, cosa dovrei dire? “No, vorrei buttarmi nell’Elba perché nessuno mi caga?”, mi sembra un po’ infantile.

Continuo a sentirmi  una perfetta idiota. Mi sento come…la Sirenetta di Andersen, quando Ursula le prende la voce. Ogni cosa che dico non ha il minimo senso, allora ho cominciato a spalancare la bocca cercando di iniziare frasi, ma senza emettere suoni. Mi è stata sottratta la parola, quello con cui gioco, lavoro, quello per cui vivo. La scrivo tutti i giorni sotto forma di indirizzi, numeri telefonici, e-mail, nomi di posti che erano miei, un anno fa. Sono ancora preziosa, in fondo, e Oslo dovrebbe darmi cittadinanza onoraria.

Ma i miei giorni passano veloci e cominciano ad assomigliarsi. Sento ancora il miracolo che mi ha portata fin qua, ma dovunque mi porti sulle reti di questo mondo enorme che vorrei abbracciare tutto, c’è un vuoto che non si colma. Le membra cominciano a cedere sotto il peso delle sfide quotidiane: anche iscriversi in palestra, quello che doveva essere uno sfogo, lo è diventato da quando l’istruttrice che cerca di seguirmi non parla una parola di inglese, neppure rechts oder links (destra o sinistra). I suoni bastardi di questa lingua impronunciabile mi si stanno conficcando in testa come chiodi di crocifissi, e fanno male. Il mio atteggiamento non mi aiuta: mi rifiuto. In realtà ci credo ogni giorno.

Ogni mattina mi alzo e penso che andrà meglio. Se se ne sono andate le nuvole posso farcela anch’io. Ma poi ogni tentativo crolla, ogni promessa non viene mantenuta, ogni impegno che tu non hai preso, viene scelto dagli altri che occupano il loro tempo e non hanno un attimo da dedicarti. Tu diventi un appuntamento come gli altri, una pratica da sbrigare, non emozioni da condividere.

Tu, che ancora ti allunghi fino alla porta di quell’altro ufficio e sorridi, chiedi come si sta. Speri ogni singolo istante che si ripeta la spontanea magia di quella prima settimana che ti ha portato perfino a credere in una nuova storia.

Invece, nulla si ripete. Nessuna delle tue speranze diventa conquista quando torni a casa di nuovo e ti pare sia passato solo un attimo da quello prima. Una lacrima di riga un po’ il viso, perché per giunta ammiri gli occhi innamorati di chi pensavi lo fosse di te, ma non t’ha mai guardata così, tirata in pista.

Anche chi pensavi ti amasse, non t’ha mai fatta ballare.

E invece solo questo vorrei fare ora: scatenarmi in una discoteca della Reeperbahn. Ma come per le passeggiate al porto, non ho nessuno che mi ci porti, né per mano, né di forza.

2 giugno 2013 – Il ponte

In questa città fatta di canali che scorrono lenti, attraverso continuamente ponti.

La mia via porta il nome di un ponte, quello che calpesto nelle sessioni di jogging lungo le rive dell’Elba che mi distendono la schiena e i nervi, mi lasciano dietro le spalle come una scia le ore passate in ufficio e qualche frustrazione.

Il porto è pieno di ponti che mi piace valicare in brevi passeggiate liberatorie fra le 18 e le 19, lasciandomi trascinare dal vento che passa fra gli ormeggi senza vele, ma pieni di bandierine colorate, verso l’orizzonte.

Ma il mio preferito è quello vicino ad Hammerbrook, quello su cui passo con la S-Bahn, specie tornando a casa, quando il sole – quando c’è! – mette in controluce tutto lo skyline di Amburgo, fatto di guglie strette e lunghe che puntano il cielo come spilli, e la torre della tv, che non osa in alto tanto quella di Alexanderplatz, ma ti ricorda che è la capitale del media, ti rammenta delle cover letter che hai ricominciato a scrivere, in cui hai ricominciato a porre le tue speranze, o forse più le tue sfide.

Non hai le idee così chiare, quelle di cui ti sei sempre vantata. Continuare con l’inglese che hai perfezionato con fatica sarebbe molto più semplice che cercare di restare qui, nella patria del grigiore a combattere con una nuova lingua da imparare e il distacco della gente. Ci vorrebbe il doppio del tempo, per ricominciare tutto daccapo un’altra volta, impiegheresti degli anni a fare il tuo giro, a raggiungere un livello decente per la costruzione di queste chilometriche parole impronunciabili e il ritorno ai casi del latino che hai odiato sui banchi del liceo.

Ma ormai…ci sei. Perché non farlo. Perché non continuare ad attraversare i ponti, ora che monti in sella alla tua bici rosso fuoco, diversa ogni giorno, abbandonata nelle stazioni del bike sharing che non deludono mai, e spacchi tutto con forza, a velocità supersonica. Hai imparato a fare gli slalom fra i passanti, rispettare la pista ciclabile, hai imparato…la strada.

Imparerai anche il resto.

“Sei giovane, hai tutto il tempo del mondo”. Dice chi, il tempo, lo fa passare con pazienza, quella che io non ho mai avuto. E forse quella è una cosa che NON VOGLIO imparare.

(Mentre il cuore, spezzato, è a piazza Taksim, fra i lacrimogeni. Su un altro ponte, quello di Galata.)

26 Maggio 2013 – Ombre

Con voi posso essere sincera.

A voi posso stilare una lista dell’oro che non luccica, delle cose che in questo idillio crucco mi restano in gola e intralciano il respiro – a parte le sigarette che dovrei smettere di fumare.

1) La lingua è un gran problema. Capisco la metà della metà delle cose che mi accadono intorno. Sono già stata all’Estero in un luogo poco ospitale dai suoni incomprensibili, ma l’inglese padroneggiava come seconda lingua ufficiale. Non ti sentivi una cretina se per una settimana cerchi un francobollo e una busta per spedire una lettera, compri l’acqua gassata invece di quella naturale, chiedi di indicarti dove puoi trovare lo zucchero, chiedi la strada…inizi in tedesco…e alla seconda domanda ti ritiri nel tuo: “Entschuldigung (si può usare una parola tanto lunga per dire SCUSA??), ich spreche nicht Deutsch.” Praticamente le uniche parole che conosci insieme a “Genau” (exactly, you’re right, ok)…che suona più come una presa per culo.

2) Ogni mattina infilo il mio blazer e vado in ufficio, ho una mia scrivania, la mia totale indipendenza…forse troppa? Nessuno mi dice ciò che devo fare. Ma noi siamo abituati agli ordini, o meglio, di fronte al first English speaker trainee, un esperimento per tutti oltre che una nota di merito, alla seconda settimana mi chiedo se sto sbagliando tutto. Arrivano note di apprezzamento per i miei elaborati, ma durano una frazione di secondo. Nessuno viene a spiegarmi ulteriormente quali sono le cose a cui stiamo lavorando…nessuno mi insegna. Imparo da sola. Ed è bello, camminare con le proprie gambe. Ma contemporaneamente…qualcuno deve metterti in piedi! Spiegarti le regole non scritte, darti la patente…prima di affidarti la macchina!

3) Ogni mattina più che infilarmi il blazer…mi metto l’impermeabile. Sono 10 giorni consecutivi, ormai, che non vedo il sole. Non ho sofferto di questa assenza neppure in Norvegia dove seppur nel ghiaccio un raggio usciva sempre. Senza essere particolarmente metereopatica, le nuvole non possono che abbassarti le palpebre e l’umore.

4) …le piastre elettriche della cucina! No, non il cibo, di cui – strano ma vero – non mi lamento affatto, caffè filtrato compreso (sacrilegio, lo so). Non so come pulirle senza distruggerle. Credo ci rimetterò la caparra!

Sì, ecco, ci sono giorni come questi che mi sento una perfetta idiota in Deutschland. Nella loro precisione schematica da agenda sempre appresso in cui fanno planning di ogni minuto, perfino della pausa pranzo per fare “networking”.

Mi sento un pesce fuor d’acqua…anche quella delle pozzanghere!

Mina vagante, mi porto le mie storie impossibili appresso, tutti i miei misunderstanding, soprattutto quelli di cuore…sempre dotati di suggerimenti sbagliati!

Ombre così sottili che ho ricominciato il giro delle applications per il prossimo passo, perché Luglio incalza già, perché in questo rigido programma non puoi permetterti di farti trovare impreparata. E la meta resta questa, con tutti i suoi 4 difetti da risolvere.

Ombre così leggere che domani potrei svegliarmi, guardare il sole e sentirmi onnipotente.